Piccole riflessioni sullo sguardo
“regarder l'autre c'est dejà interagir, voir, c'est dèjà faire”
Eric Landowski
Lo sguardo è il veicolo di una presentificazione che, dal simulacro fotografico alla presenza carnale, produce un salto: dal visibile al sensibile, dalla rappresentazione alla presenza. Lo sguardo è una sorta di miracolo, un'incarnazione. Lo sguardo in macchina, il contatto stabilito fra l'essere rappresentato e lo spettatore che guarda dallo stesso punto di vista della macchina che ritrae, apre un corpo a corpo dove il tempo si manifesta in tutta la sua relatività, si annulla. Opera e spettatore dialogano e cooperano in un contagio patetico/empatico.
“Sto guardando gli occhi che hanno visto l'imperatore” afferma Roland Barthes guardando una fotografia che ritrae in posa il fratello di Napoleone Bonaparte.
Lo sguardo in macchina apre mondi e riflessioni parallele all'immagine stessa: perché nell'immagine fotografica non desta alcuno stupore che mentre guardiamo siamo anche noi in qualche modo "guardati", mentre nel cinema è un vero e proprio cortocircuito narrativo che smaschera la rappresentazione in quanto tale?
L'assuefazione allo sguardo tipico della nostra cultura é qualcosa di doloroso perché assolutamente insensata; in tempi lontani l'immagine veniva percepita come agente in grado di vanificare l'identità e la sua aura sacrale. Intorno al 1840 non era raro che una persona decidesse di nascondere il proprio ritratto a dagherrotipo in un cassetto, al fine di proteggerlo e proteggersi. Lo percepiva come doppio, un proprio gemello.
La verità è che ci sono molti tipi di sguardi. Ognuno di noi può accorgersene sfogliando i propri album di famiglia. Lì ci sono occhi presenti e persino occhi incoscienti, ma in ogni caso occhi che guardano altri occhi: i nostri. Negli anni sempre più rapidi delle memorie digitali, ogni volta che concediamo il nostro sguardo all'obiettivo stiamo donando inconsapevolmente i nostri occhi a estranei, senza percezione alcuna dell'atto magico che quel gesto sottende. Piccole violazioni di identità. Questa rete sotterranea di sguardi esiste, possiede un codice tutto suo e lascia dietro di sé non poche conseguenze. Non sto certo dicendo che non dovrebbero più esistere ritratti e sguardi in macchina, tutto l'opposto. Vorrei tuttavia che nascessero da un atto di consapevolezza, un atto di presenza e di coscienza del proprio potere, un modo per affermare il proprio esserci nel mondo, e non - come invece mi trovo a constatare - ossessive testimonianze di identità conformi e inconsistenti.
Mi domando a questo punto se “l' aureola di terrore reverente che ci lega alle cose sacre” (come afferma Lévi-Strauss) non sia in realtà un confine tra noi e l'altro, necessario a stabilire una geografia del sé, intima, segreta, condivisa con saggezza. Come tutte le cose sacre, appunto.
ph. Julia Margaret Cameron
La famiglia di Roland Barthes