Ho l’impressione che oggi esistano mondi fotografici ben recintati:
il mondo della fotografia popolare, fatto di foto-amatori, ma anche di professionisti sempre al passo con la frenesia consumistica dell’ultimo modello Reflex/mirror-less;
il mondo delle nicchie, nascoste, auto-referenziali, spesso diffidenti nei confronti della fotografia popolare;
e infine il mondo della fotografia d’arte, inteso come quell’insieme di autori che della creazione personale hanno fatto il proprio lavoro. Questi ultimi sono abbastanza indifferenti nei confronti delle prime due categorie. Sostanzialmente il percorso è a loro chiaro, e non sentono il bisogno di perdere tempo in inutili lotte fra fazioni.
Ci sono molteplici esperienze di fotografia “altra”, ma relegata alla sfera del “terapeutico”. Quindi non esistono altri percorsi possibili?
Ci sono tanti “dispersi” fra i recinti di queste categorie. Tanti alla ricerca di un proprio posto, di un proprio spazio nel mondo della fotografia. Vorrebbero non definirsi, ma pare che il mondo non possa accoglierli senza una qualche sorta di etichetta. Il Popular gli domanda “che genere di fotografia fai?” “Sì ma quanti obiettivi hai?” “ma la tua Reflex è almeno full-frame?”. La nicchia gli domanda: “Conosci la scuola tedesca?” “Lo sai che l’estetica è superata?” “Chi ti pubblica?”. Il fotografo/artista non domanda nulla. Nel peggiore dei casi ignora il disperso. Nei migliori, diventa suo maestro.
E’ a quei dispersi che sento il bisogno di rivolgermi. A coloro che sentono, avvertono, che la fotografia può essere qualcos’altro. Forse perché a lungo mi sono sentita una dispersa anche io.
Credo che la fotografia sia poco "evolutiva" a causa di un grande svantaggio: è tutta tecnologia. Se si fosse fermata ad essere semplice foro, camera oscura, magia di luce, sono certa che ci sarebbero meno fraintendimenti. Quello che osservo ogni giorno, attraverso il mio lavoro, è che tecnologia e spiritualità sembrano due poli che si respingono. Sembra non possano coesistere, non possano nutrirsi, non possano essere tappe di un unico percorso. Eppure la fotografia è spiritualità. Ci dimentichiamo dell’atto vero e proprio: attingiamo a una realtà mutevole e impermanente, che solo la memoria soggettiva può in qualche modo conservare. Afferriamo un’istante e lo liberiamo da questo eterno scorrere. Infine lo ritroviamo lì, su carta, su monitor, e lo consumiamo a piacimento. Afferriamo quell’istante, lo trasformiamo e lo manipoliamo, lo preleviamo per lasciarlo vivere in un tempo cui non appartiene. Un atto divino. Mi rendo conto che in poche righe ho perso l'attenzione di tutti i razionalisti e gli illuministi. Eppure ora più che mai è il momento di riappropriarsi, di ripulire parole altamente fraintese.
Conversando con i partecipanti dei miei laboratori ho a lungo dibattuto sul cambiamento del pensiero che sta dietro all’immagine. Partendo dalla fotografia analogica, giungendo fino alla più recente tecnologia Lytro Illum, ho visto verbalizzarsi una serie di resistenze al cambiamento, e allo stesso tempo ho percepito una cieca fiducia nei confronti della tecnica e dell’innovazione.
Personalmente, ho sempre utilizzato ogni supporto fotografico, e tutt’ora mi muovo trasversalmente, senza arrestarmi mai. Creo e lavoro su pellicola, su digitale, lavoro in medio formato e in 35mm. Conosco Photoshop e ho sviluppato e stampato in camera oscura. Lavoro con il video e con la performance. Lavoro con il suono e con le nuove tecnologie. Amo creare, dipingere, scrivere, comporre. Non ho mai sentito nessuno di questi processi prendere il sopravvento. Ho piuttosto sentito adattarsi, flettersi, ognuno di questi strumenti alle mie necessità, di volta in volta. Lo strumento è al servizio delle mie idee, della mia creatività, delle emozioni e sensazioni che di volta in volta sento il bisogno di esprimere. Il paragone che mi è sorto spontaneo é quello del linguaggio: se desideriamo scrivere, che si tratti di un romanzo, una poesia, una relazione, non possiamo bypassare la conoscenza di una determinata lingua. Una volta che acquisiamo la gamma più varia di competenze linguistiche, gli aspetti più importanti di grammatica e sintassi, un lessico esteso secondo necessità, rimescoliamo tutti questi elementi per farne qualcosa di nuovo, personale e - possibilmente - autentico. Se oltre ad una lingua ne conosciamo altre, ci accorgiamo che i nostri pensieri, ragionamenti, il modo in cui incanaliamo le emozioni si fa differente; che sia la qualità della parola, o la lunghezza dei periodi, qualcosa cambia. Pare impossibile, ma non riusciamo mai a tradurre da un codice all’altro senza perdere qualcosa. Qualcosa, si dice, è sempre perso nella traduzione. Eppure conoscere lingue differenti rende la mente elastica, creativa, vitale. Ci permette di osservarCi da fuori, di non essere “parlati” da un unico codice linguistico (e dalla cultura che rappresenta), ma di essere in qualche modo più liberi, selvaggi. Lo può confermare un linguista. Lo stesso vale per la fotografia. Uno strumento va conosciuto sì, la tecnica appresa, ma solo per rimescolare tutto, come fosse un mazzo di carte. Solo allora ne emerge l’individuo, l’IO che finalmente esce dalla frustrazione e dal disagio dell’imitazione o del vuoto creativo, e dice la sua. I popolari e le nicchie cercano di farci dire sempre le stesse cose. Di utilizzare gli strumenti in un unico modo, che qualcuno ha deciso per noi. La verità è che sperimentare aumenta l’intelligenza, intesa nel suo significato etimologico (dal latino intelligĕre, contrazione del verbo legĕre, "leggere", e dell’avverbio intŭs, "dentro”). Intelligenza come leggere dentro, oltre le apparenze e le intenzioni.
Se utilizziamo ogni strumento fotografico all’unico fine di veicolare chi siamo, le nostre idee in continuo mutamento, la nostra persona e tutto ciò che essa rappresenta, ciò che rimane, al di là di ogni nicchia, ogni giudizio e ogni etichetta, siamo e saremo sempre Noi.